Fosse Ardeatine, la commemorazione 78 anni dopo

Le Fosse Ardeatine sono un luogo emblematico della lotta per la Resistenza dalla quale è risorta la libertà ed è nata la Repubblica italiana.

                    La Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, nel 78.mo anniversario, ha dichiarato: “L’eccidio delle Fosse Ardeatine è quanto di più aberrante l’umanità sia riuscita a raggiungere nei crimini di guerra. Il ricordo di quella lacerazione, alimentato dall’incessante testimonianza delle famiglie dei martiri e dell’Anfim, è divenuto parte integrante del comune cammino verso la promozione di una cultura democratica e repubblicana; una cultura ispirata alla più solida difesa delle libertà fondamentali e del valore della Patria. Questa preziosa memoria sia per tutti noi un monito a non abbassare mai la guardia di fronte alla tutela della dignità umana come limite invalicabile anche nelle situazioni di conflitto armato. È una prospettiva di cui oggi più che mai dobbiamo essere garanti rispetto ai tanti scenari di crisi che il quadro geopolitico globale ci presenta”.

Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha ricordato: “78 anni fa l’eccidio delle Fosse Ardeatine, dove furono uccisi barbaramente dalla furia nazifascista 335 uomini inermi tra militari, ebrei, prigionieri politici, persino alcuni civili rastrellati per le vie di Roma. Il più anziano aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici. Una delle pagine più drammatiche e dolorose della storia recente della nostra città e di tutto il Paese. È dovere di tutti rendere omaggio a queste vittime e coltivare la memoria, unico antidoto all’odio cieco e barbaro della guerra. Oggi più che mai, il ricordo di questo eccidio è un monito contro il pericolo di degenerazioni autoritarie e sanguinose e un richiamo alla difesa dei valori della democrazia, della fratellanza, della libertà. La memoria ci unisce e ci rende più forti, più solidali, più rispettosi della vita, più ancorati alla pace. Per questo, mai dimenticare”.

In una nota a firma congiunta di Michela Cicculli e Amedeo Ciaccheri, rispettivamente: la consigliera di Sinistra Civica ed Ecologista delegata dal Sindaco a partecipare al corteo ed il presidente dell’ottavo municipio di Roma, si legge: “Dopo due anni di pandemia, torniamo a camminare insieme in corteo fino al sacrario delle Fosse Ardeatine per ricordare l’eccidio di 335 vittime che hanno pagato con la vita l’orrore nazifascista. Oggi con i ragazzi e le ragazze delle scuole del Municipio VIII, Anpi, Anfim e Comunità ebraica, restituiamo dignità a quei martiri, ribadendo i valori della democrazia. È stata un’emozione forte vedere tante persone unite dallo stesso sentimento, a testimonianza di quanto la nostra città sia simbolicamente e strettamente legata alla lotta partigiana, alla Resistenza, alla libertà e all’antifascismo. Un sentimento che rappresenta anche l’orgoglio e la responsabilità di portare avanti un percorso di Memoria attivo che si rinnova ogni giorno, con iniziative diffuse dove i protagonisti sono le giovani generazioni, contro l’indifferenza, la sopraffazione, la violenza e la morte. L’eccidio delle Fosse Ardeatine, riguarda tutti noi e il nostro dovere, come rappresentanti delle istituzioni, è ricordare anche le migliaia di donne, mogli, sorelle, compagne, che hanno cercato giustizia e tenuto vivo con coraggio il seme della storia. Quel seme che poi è diventato futuro. La commemorazione di questi giorni acquista ancora più valore se pensiamo a quanto sta accendendo alle porte d’Europa dove una guerra insensata consegna da un mese distruzione e morte. E allora, il nostro appello deve alzarsi ancora più forte: non smettiamo mai di utilizzare le nostre energie per affermare che vogliamo un mondo di pace”.

All’ingresso del sacrario delle Fosse Ardeatine a Roma si legge:                                                         

“QUESTO TEMPIO DEL SACRIFICIO PROMOSSO DALL’ANFIM, REALIZZATO E INAUGURATO IL 24 MARZO 1949 DA UMBERTO TUPINI – MINISTRO DEI LL.PP. -, È SACRARIO DEI MARTIRI ARDEATINI MAUSOLEO NAZIONALE DI TUTTI I CADUTI NELLA LOTTA DI LIBERAZIONE PER DARE LIBERTÀ E INDIPENDENZA ALLA PATRIA”.

È il secondo anno che tra le iniziative in ricordo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine c’è anche l’evento promosso da ANPI Garbatella-San Paolo–Ostiense e dal collettivo Join The Resistance in piazza Bartolomeo Romano alla Garbatella. Lo scorso anno questo incontro sotto il murale dedicato ad Enrico Mancini, uno dei martiri delle Fosse Ardeatine, iscritto al Partito d’Azione, aveva sostituito l’assenza del corteo della memoria, che no fu possibile realizzare a causa delle norme anti Covid.

Quest’anno, l’evento è stato riproposto e l’appuntamento è stato fissato per le 16.30 in concomitanza con le celebrazioni ufficiali che il Capo dello Stato terrà al Sacrario delle Fosse Ardeatine. La celebrazione è stata organizzata con il patrocinio del Municipio VIII e, come spiegano gli organizzatori, vuole rappresentare un momento aperto di memoria e confronto nel giorno dell’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

In tante altre Città d’Italia, che hanno avuto i loro concittadini martiri della Resistenza trucidati alle Fosse Ardeatine, si svolgono manifestazioni celebrative.

A Monte Compatri, quest’anno verrà presentato il libro “Mario Intreccialagli, calzolaio – Il Partito d’Azione, le Fosse Ardeatine, la Memoria” , scritto da Danilo Intreccialagli, pubblicato da Edizioni Controluce con la prefazione di Salvatore Rondello, presidente del Circolo Giustizia e Libertà di Roma.

L’evento si svolge oggi alle ore 17,30 a Monte Compatri presso la Sala consiliare del Tinello Borghese con gli interventi di Giorgio Benvenuto – Presidente della Fondazione Bruno Buozzi; Francesco Ferri – Sindaco di Monte Compatri, Serena Gara – Assessore alla Cultura di Monte Compatri; Danilo Intreccialagli – autore del libro ed ex dirigente di istituti di credito; Ugo Mancini – storico, e Salvatore Rondello – presidente del Circolo Giustizia e Libertà di Roma.

Un monumento a Monte Compatri ricorda Mario Intreccialagli e Placido Martini: i due concittadini trucidati alle Fosse Ardeatine, che pur essendo di estrazione sociale diversa, lottarono e morirono per gli stessi ideali.

Nella premessa del libro, l’autore ha scritto: “La ricerca su Mario Intreccialagli muove da due esigenze. La prima è avere l’opportunità di chiarire le modalità del suo impegno all’interno delle forze antifasciste e, quindi, del Partito d’Azione, di cui è stato militante. La seconda è fare luce sulla vicenda terminale della sua breve esistenza: l’arresto e l’uccisione nell’ambito della strage consumata dai nazifascisti alle Fosse Ardeatine di Roma”.

Il presidente dell’Anfim, Francesco Albertelli, scrive: “…Fare memoria della Resistenza e della storia degli uomini e donne coraggiose che persero la vita per la libertà di tutti significa ribadire i valori della Democrazia, Libertà e Uguaglianza che furono alla base della guerra di Liberazione.

Valori insopprimibili all’interno di una società moderna che non vanno, tuttavia, mai dati per scontati come dimostrano i recenti e tragici eventi della guerra in Ucraina, nel cuore dell’Europa”.

Il presidente del Circolo Giustizia e Libertà di Roma, Salvatore Rondello, ricorda: “I martiri delle Fosse Ardeatine, assieme a tutti i martiri della Resistenza, rivendicano ancora oggi una giustizia che non hanno mai pienamente ricevuto”.

Infine: “…L’opera di Danilo Intreccialagli si aggiunge, con rinnovata importanza, a quanto è stato finora scritto sulle lotte partigiane e sulla Resistenza”.

Ai posteri va trasmessa la memoria di quanto è avvenuto, del caro prezzo pagato, non solo per dovere commemorativo, ma soprattutto per gli insegnamenti sui valori della vita, della pace tra i popoli, sulla solidarietà e fratellanza umana.

[ pubblicato su “AvantiOnline” del 24 marzo 2022 ]                                                                          

        

                                                          (pubblicato da Administrator)

Lettera aperta al presidente Mattarella

 Lo storico Circolo “Giustizia e Libertà” di Roma, fondato nel 1948 da ex partigiani dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, esprime vivo compiacimento per la Sua rielezione, tenuto conto del difficile contesto storico e politico in cui è avvenuta.
Siamo certi del Suo massimo impegno, nel prossimo settennato, volto a consolidare il prestigio dell’Italia e degli italiani in tutto il mondo, così come abbiamo potuto già constatare nell’assolvimento del Suo precedente mandato presidenziale.
Siamo anche certi del Suo impegno affinché gli italiani possano riuscire a darsi una classe dirigente più illuminata e credibile di quella che negli ultimi anni è venuta fuori dalle urne elettorali. In tal senso sarà anche necessario un maggior rigore nel fare osservare pienamente e compiutamene l’art. 21 della Costituzione, ma anche di incoraggiare e sviluppare i luoghi dove poter esercitare la democrazia politica ed anche quella economica prevista dal dimenticato e mai attuato articolo 46 della Costituzione.
Oltre l’attenzione alla pandemia ed agli investimenti dei fondi europei con il PNRR, avrà modo di impegnarsi per corroborare i principi democratici della nostra Repubblica, minati negli ultimi anni da molteplici interessi di parte. Tra i punti più delicati e urgenti c’è la necessità di una buona riforma elettorale idonea affinché il Parlamento possa rappresentare tutti gli italiani, senza nessuna esclusione delle minoranze e di tutte le molteplici differenziazioni contemplate dalla nostra Costituzione.
Infine, auspichiamo che, durante il Suo nuovo mandato presidenziale, si possa riuscire a dare agli italiani, con la collaborazione del Parlamento, un’Italia più efficiente e funzionale dove il benessere dei cittadini possa crescere coerentemente ai principi di giustizia sociale e libertà presenti nella nostra Costituzione, nata, come Ella ben sa e come ha sempre rammentato nelle molteplici ricorrenze, dopo la tragedia di una guerra, con il sacrificio ed il sangue versato da tanti italiani insorti per risorgere.
L’etica nella politica e negli organi di informazione sono fondamentali per un corretto svolgimento della vita democratica nel nostro Bel Paese. Buon lavoro!

 Il Presidente del “Circolo Giustizia e Libertà”  di Roma
Salvatore Rondello

  (lettera pubblicata su “Avantionline.it” del 31/01/2022)                                                     

                                                                                                                        [pubblicato da Administrator]

Ricordo di Bruno Rodella

Bruno Rodella nasce a GUIDIZZOLO (Mantova) il 17 ottobre 1917 da Mario e da Gemma Bignotti, ha un fratello di nome Piero.

 

Vive una infanzia e giovinezza spensierata, studiando e giocando con i suoi amici, alcuni dei quali hanno in seguito ricordato quel periodo della loro vita. In particolare, per racimolare un po' di soldi, lucidava, con altri amici, le catene dei camini di casa  durante la Settimana santa, come  è tradizione nel mantovano. 

Nel 1930, quando ha 13 anni, è tra i 500 vincitori del Concorso, indetto dal giornalino Amico dei Piccoli, in occasione delle nozze di Principe di Piemonte Umberto di Savoia, figlio del Re Vittorio Emanuele III, con la Principessa Maria José, figlia del Re del Belgio, con una sua lettera, che è selezionata tra le decine di migliaia inviate agli Augusti Sposi reali da studenti di ogni Regione d'Italia.

 

Nel 1933 si trasferisce con la Famiglia a Roma, dove prosegue gli studi nel Liceo Classico Dante Alighieri, dove si diploma con discreti voti (7 in Italiano e Storia dell'Arte).Poi si iscrive alla Facoltà Giurisprudenza dell'Università La Sapienza, consapevole del sacrificio economico che avrebbe dovuto fare la sua Famiglia, dato l'elevato costo dell'iscrizione all'Università, che ammontava a circa 800 lire l'anno. Decide quindi di fare alcuni Concorsi pubblici, per diplomati, nei Ministeri degli Esteri, delle Telecomunicazioni, delle Finanze e della Giustizia, che gli assicuravano uno stipendio di circa 900 lire l'anno. Vince il concorso ????

 

Nel giugno 1940, quando sta per finire gli esami per poi laurearsi, scoppia della guerra e quindi è chiamato alle armi come Sottotenente dei Bersaglieri ed è assegnato alla Divisione Piave. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, riesce con uno stratagemma a salvarsi dalla cattura dei tedeschi, insieme con una decina di suoi commilitoni, ufficiali e soldati, che si nascondono nella Scuola di Piazza Crati per sfuggire alla cattura. Lui si traveste da bidello. 

Durante la Resistenza all'occupazione nazifascista di Roma aderisce al Partito d'Azione, nel quale milita il cugino Avv.to Ugo Baglivo, che è il responsabile militare della I^ Zona di Roma -centro storico- delle formazioni “Giustizia e Libertà” del  Partito d'Azione, che è arrestato  il 3 marzo 1944 e poi trucidato alle Fosse Ardeatine.

Aderisce alla Banda Piave, formata soprattutto da militari appartenenti alla omonima Divisione dell'Esercito, organizzata dal Partito d'Azione nella V^ Zona (che comprende i quartieri cittadini Nomentano. Italia, San Lorenzo). Si impegna nella raccolta e trasporto di armi leggere e munizioni e nella distribuzione di materiale di propaganda (il giornale clandestino Italia Libera, organo del Partito d'Azione, volantini, da distribuire nei cinema, nei teatri e sui tram...).

 

La mattina del primo gennaio 1944, Rodella, è fermato in Piazza Re di Roma durante un rastrellamento nazifascista finalizzato alla cattura dei soldati italiani disertori da parte di agenti della Polizia dell'Africa Italiana (PAI) e delle SS. Ha con sé TRE Carte di identità: una rilasciata dal Comune di Roma, con la sua residenza insieme con la madre, in via del Lago Terrione 12 (vicino al quartiere Cavalleggeri, presso il Vaticano), dove è nascosto un altro patriota. 

Una seconda Carta di identità, falsa, con indirizzo in Viale delle Province 37, che è il luogo di copertura durante la clandestinità e dove è conservato materiale di propaganda del Partito d'Azione.

Decide di dare quella falsa, ma gli agenti nazisti lo perquisiscono e gli trovano l'altro documento ed una rilevante somma di denaro che sono i risparmi che la mamma gli ha affidato la mattina. Pertanto viene fermato e portato al Comando della Polizia di Sicurezza nazista (SS) in Via Tasso 145. Quindi le SS effettuano in forze (con quattro auto) un sopralluogo, con perquisizione, in Viale delle Province 37, dove trovano  numerose copie del giornale azionista Italia Libera che Rodella doveva ancora diffondere e altri documenti del Partito d'Azione. 

Per questo motivo è a lungo interrogato ed anche torturato nel carcere nazista di Via Tasso (dove rimane circa 2 settimane) per, poi, essere trasferito nel carcere di Regina Coeli dove è rinchiuso nel III Braccio controllato dai nazisti.

Nei giorni precedenti al suo arresto, Rodella, aveva organizzato (insieme ad altri militanti azionisti, tra i quali il suo amico ed ex commilitone Tenente Ferdinando Lucchini già membro con Riccardo Bauer, Tommaso Carini e Giovanni Ricci,  del Comitato Militare Cittadino del Partito d'Azione) un’azione presso l'ingresso nella Scuola elementare Alfredo Oriani in Piazza Indipendenza, per distruggere le liste di leva ( censimento ebrei?) ivi conservate, ma poi  l'azione era stata sospesa.

 

Il 22 marzo 1944 Rodella è processato e condannato dalFeldgericht (il Tribunale Militare di Guerra tedesco) a 15 anni di reclusione per il grave reato continuato di “propaganda ed attività ostili ai tedeschi e di distribuzione di volantini e giornali clandestini”. Però Lui non è molto preoccupato perché gli Alleati sono vicino a Roma e presto sarebbero arrivati in città, liberandola dall'occupazione nazifascista. Alla madre, andata a trovarlo nel carcere di Regina Coeli subito dopo il processo, dice di non preoccuparsi e di avvisare il suo amico Ferdinando Lucchini (dirigente della V^  Zona del Partito d'Azione) di “stare attento” perché  avrebbero cercato di arrestarlo, dal momento che era già sfuggito alla cattura il 3 marzo. 

 

Il primo pomeriggio del 24 marzo 1944 viene prelevato dai nazisti da Regina Coeli e condotto alle Cave Ardeatine è trucidato insieme ad altri 334 patrioti, tra i quali il cugino Ugo Baglivo e una cinquantina di altri partigiani “azionisti”.

Il Comune di nascita Guidizzolo (MN) ha intitolato alla sua memoria la strada  nella quale si trova la casa (ora appartenente alla Famiglia De Giuli) dove è nato: sulla parete  della casa, al civico 64,  è stata posta una targa (restaurata per il Giorno della Memoria del 2013 dall'Associazione  Nazionale tra Mutilati ed Invalidi di Guerra- ANMIG), davanti alla quale, ogni anno in occasione del 24 marzo (anniversario dell'eccidio nazista delle Fosse Ardeatine) ed il 25 aprile (Festa della Liberazione), l’Amministrazione Comunale, guidata dal Sindaco, depone una corona d’alloro.

 l'Amministrazione Comunale, guidata dal Sindaco, depone una corona di alloro.

                                                                                                                      di Giorgio Giannini

 

                                                             [ pubblicato da Administrator ]

                                                       

 

Enrico Mancini: storie familiari intorno alla Giustizia e alla Libertà

 

 Pubblicato nel numero 2/2021 de “Quaderni del Circolo Rosselli”  (anno XLI, fascicolo 142 pag. 165) 

Alla memoria di Riccardo Mancini

Articolo a cura di Iacopo Smeriglio -[ Studente di Giurisprudenza presso Roma Tre ]

 

           Con l’intento di tessere una tela di ricordi familiari, arricchiti con i raffronti documentali, mi accingo a scrivere la storia di Enrico Mancini: un artigiano e commerciante, padre di sei figli e marito di Argia Morgia, antifascista e partigiano del Partito d’Azione, martire dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. È questo un tentativo di tratteggiare e ricostruire la vita di un uomo e di una famiglia su cui impattò la Storia del secolo scorso.

Enrico Mancini nacque il 13 ottobre 1896 a Ronciglione, un paese della provincia di Viterbo, che all’epoca contava circa seimila anime arroccate nei monti della Tuscia. Insieme ai genitori Luisa Pizzuti e Francesco Mancini, presto si trasferì a Roma. Negli anni della giovinezza imparò a maneggiare il legno, apprendendo ed iniziando a praticare il mestiere di ebanista presso alcune botteghe. Fu, questa, una delle attività che, anche negli anni più difficili, gli permise di mantenere dignitosamente la famiglia e di difenderne l’indipendenza economica.

Con l’arrivo del primo conflitto mondiale, Mancini, che nel 1915 aveva diciannove anni, si arruolò nell’esercito regio. In battaglia dimostrò coraggio e così, al rientro a Roma, fu fregiato nel 1921 della Medaglia al Valor Militare dal Ministero della Guerra. Gli anni che seguirono furono intensi. L’attività lavorativa frenetica lo portò, presto, ad aprire una sua propria bottega ed avviare il commercio dei mobili e delle altre produzioni. Fu quello il periodo in cui, nel frattempo, avvenne l’incontro con Argia Morgia: una giovane insegnante di scuola elementare, che abitava nella zona di Via Po’. Enrico Mancini si innamorò e insieme, da quel momento, furono una famiglia, arrivò il matrimonio e, quindi, i figli. Abitarono prima nella casa familiare di lei, per poi trasferirsi dal 1922 in Via di Sant’Elena, vicino Largo Argentina, e successivamente a Testaccio, in Via Mastro Giorgio.

In una lettera degli anni ’30, che Enrico scrisse alla moglie probabilmente per rimediare ad un allontanamento temporaneo, traspare l’amore sincero che non lo abbandonò mai:

                                                                    “Mia cara Argia, mi giunge in questo momento anche la tua del 31. Essa mi è

d’argomento e mi dà lo spunto per dirti, o meglio, ripeterti, quanto di persona

spesso non sono capace a spiegarti.

Ed è proprio su questo foglio, che a distanza di qualche anno, voglio riparlarti

intimamente di noi; e ripeterti brevemente, forse con altre parole, sempre sincere,

il mio pensiero sul nostro amore e sulla nostra vita. […] Ma vedi: gli anni,

pur lasciando intatta nel mio amore questa fiamma, l’hanno enormemente accresciuta

di quello stesso amore e della responsabilità della famiglia.

[…] Io chiedo a te Argia, di tornare ad essere la mia donna, il mio amore, con

tutto il risveglio del tuo grande sentimento; e chiedo anche la tua forte, piena e

intelligente collaborazione, della quale avrò tanto bisogno per sperare ancora di

poter vincere nella vita”.

 

                                                                                                                                                                                                                                                      

 Gli anni ’20 del Novecento, come sappiamo, portarono il fascismo e la società italiana cambiò.

Le biografie personali, intime, si incrociano inevitabilmente con l’evolversi circostante della Storia e così accadde anche ad Enrico Mancini.

Enrico Mancini, infatti, non nascose mai il suo fiero rifiuto del fascismo. In città lo sapevano tutti, e con il passare del tempo ed il rafforzarsi del regime, questa convinzione cominciò ad avere un peso e delle conseguenze. Negli anni, le sue botteghe vennero ripetutamente danneggiate e date alle fiamme. Insieme alla sua famiglia fu costretto ad andare a vivere alla Garbatella, dentro gli alberghi suburbani, palazzi popolari di nuova costruzione – furono edificati tra il 1927 e il 1929 – in cui il regime stava concentrando antifascisti e persone da tenere sotto controllo. Nonostante le pressioni e le violenze, che si abbatterono su di lui e sulle sue proprietà, Enrico Mancini non aderì mai al Partito Nazionale Fascista.

Nei venti anni tra le due guerre Enrico e Argia misero al mondo quattro figli maschi e due figlie femmine: Alberto, Bruno, Adolfo, Mirella, Elettra e Riccardo. Una famiglia larga e tante bocche da sfamare, che però non impedirono di continuare ad aiutare compagni e disoccupati in difficoltà.

In un testo il figlio Adolfo, raccontando quella fase della vita del padre, scrive:

 

“Mi ricordo ancora quando aveva una piccola trattoria, tutti gli amici antifascisti

e disoccupati (perché a quei tempi se non eri iscritto al fascio non trovavi

lavoro) venivano a mangiare gratis, perché non potevano pagare. Allora nostra

madre faceva un pacchetto di viveri per ognuno di loro. Mio padre aiutava tutti

nel suo ambito di conoscenze, mia madre aiutava la gente del quartiere e del

palazzo dove noi abitavamo”.

 

Enrico Mancini negli anni ’30 era un nemico del regime, ma nonostante le difficoltà aprì e gestì diverse attività commerciali nel centro di Roma. Nel periodo che va dal 1930 al 1933 tenne aperta una segheria nelle vicinanze di Via Labicana: i mobili che costruiva venivano spediti perfino in Africa. Molti clienti, però, sapendo della sua opposizione al fascismo, non pagavano, consapevoli che Mancini non potesse reclamare, e così fu costretto a chiudere per fallimento. Tra il 1934 e il 1936 gestì, presso Via di Ripetta, la Trattoria La Reginetta e poi, tra il 1938 e il 1944 diede vita insieme ad altri soci alla Società SPAI, per il commercio di prodotti agricoli industriali e la vendita dell’acqua minerale. L’ufficio della società si trovava in Via Mario de’ Fiori, a pochi passi da Via del Corso. Arrivò a possedere, cosa rara per quell’epoca, anche una macchina, che utilizzava per viaggiare per il commercio e che fu presto sequestrata e poi distrutta dai militi fascisti.

La conoscenza dell’attività commerciale e artigiana di Enrico Mancini ci permette di inquadrare il contesto in cui egli agiva e costruiva legami e relazioni, che diventarono eversive e non poterono che intensificarsi con l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale e, poi, della Guerra di Liberazione a Roma. Una vasta rete di distribuzione, di clienti, i magazzini e i locali nel centro della città e il supporto della famiglia, gli permisero di muoversi tra i quartieri e dentro e fuori la città, di prendere parte e ospitare incontri e riunioni.  Già dal 1943, con la stampa del primo numero de “L’Italia Libera”, aderì alla formazione del Partito d’Azione.

 

“La ricomposizione di una rete organica del PdA romano si determinò grazie

alla convergenza delle relazioni tra esponenti storici dell’antifascismo laico ed i

nuovi gruppi giovanili, portando a sintesi il rapporto tra ambienti sociali popolari

e della media borghesia intellettuale e definendo così una perfetta simmetria

identitaria tra il profilo interclassista delle formazioni GL e la conformazione

politico-sociale della capitale[1]”.

 

Leone Ginzburg, che fino all’arresto e poi alla morte in carcere, fu esponente di massimo rilievo dell’organizzazione a Roma, in un numero del giornale del PdA del 15 settembre 1943, scriveva parole dure indirizzate ai Savoia e alla classe politica connivente con il regime. Poneva acutamente e con enorme lungimiranza, il tema del necessario ricongiungimento della comunità europea, a testimonianza dello spessore dell’elaborazione politica di cui in quegli anni si fecero portatori nella società italiana:

 

“E forse qualcuno di loro avrà capito che tutto il passato ha da essere snidato e

distrutto nelle nostre istituzioni politiche e sociali, e non soltanto l’aggettivo

“fascista” sulle targhe e i frontoni dei palazzi, per far sì che l’Italia si ricongiunga

di nuovo alla civiltà europea [2]”.

 

È con l’armistizio, però, che l’attività clandestina di Enrico Mancini assume maggiore rilievo. L’8 settembre 1943 a Roma fu uno spartiacque decisivo per le biografie personali di migliaia di antifascisti di tutte le formazioni.

 

“I partiti antifascisti nel quadro di questi mutamenti in itinere e dopo la presa

d’atto di come l’idea originaria dello scontro risolutivo con i tedeschi fosse venuta

meno col farsi concreto della storia, avviarono nel Paese, e in condizioni particolari

a Roma, questo complesso processo di trasformazione pur mantenendo

al loro interno forme organizzative visibilmente distinte riguardo la lotta clandestina

nella capitale […]. L’eredità storico-politica dell’azionismo, che vedeva

la guerra di popolo come elemento insieme spontaneo ed educativo delle masse,

portò il PdA a Roma a dare una forma organizzativa organica tra sfera politica

e ambito militare che invece i comunisti mantennero rigorosamente distinte

distaccando completamente i GAP centrali dal resto dell’organizzazione armata

di massa[3]”.

 

Enrico Mancini abitava alla Garbatella, al Lotto 43 in via Percoto. Da lì sono poche centinaia di metri per arrivare a Porta San Paolo, dove il 10 settembre 1943 si verificò lo scontro con le truppe naziste che dopo l’armistizio stavano occupando la città. Le migliori previsioni delle formazioni antifasciste romane contavano sulle undici divisioni del regio esercito di stanza a Roma, contro le sole due agli ordini di Kappler. Il Re e i generali, invece, con tutto lo stato maggiore, fuggirono verso Bari nelle prime ore dall’ufficializzazione dell’armistizio, lasciando le truppe allo sbaraglio. Così a Porta San Paolo, nella battaglia che segnò l’inizio della Resistenza italiana all’occupazione nazista, a combattere ci furono centinaia di civili antifascisti, organizzati e non, a sostegno dei militari rimasti. È giusto pensare, vista la precedente esperienza di guerra, la vicinanza e l’impegno antifascista di Enrico Mancini, che in quelle lunghe ore di fuoco anche lui fosse stato mobilitato dal Partito d’Azione.

 

L’inizio dell’occupazione segnò, in ogni caso, una svolta nella vita della famiglia intera. Le attività clandestine si intensificarono e nei mesi successivi all’8 settembre ospitarono e nascosero, in casa e nei vari magazzini, militari, ufficiali e compagni. Non di rado Enrico assegnava consegne e commissioni ai figli che, come hanno poi raccontato Adolfo ed Elettra,


[1] D. Conti, Guerriglia partigiana a Roma, Roma, Odradek, 2016, pag. 69.

 

[2]L. Ginzburg, Aver coraggio, in “L’Italia Libera”, n. 8 (15 settembre 1943).

[3]D. Conti, Guerriglia partigiana a Roma, Roma, Odradek, 2016, pag. 19

 

 

erano incaricati di portare pacchi di indumenti e soldi in giro per la città occupata. Capitava che fossero loro, che all’epoca avevano quindici anni circa, ad attaccare volantini e manifesti de L’Italia Libera sui muri del quartiere o sui lampioni. Le attività di rete e di informazione non sfuggirono alla polizia segreta fascista, che fece irruzione nell’ufficio di Mancini già sul finire del 1943. Nei primi mesi del 1944 non interruppe l’azione clandestina e durante il periodo che immediatamente precedette l’arresto, Enrico Mancini svolse varie e ripetute riunioni nella zona di Piazza Vittorio.

Questi sono racconti dei figli, che in prima persona vissero quei giorni accompagnando il padre e contribuendo in piccolo alla sua azione clandestina e di resistenza. Sono preziosi, ma limitati, strumenti per tratteggiare i contorni di un’attività clandestina instancabile, fatta di relazioni, incontri e riunioni: intelligence e coordinamento delle informazioni, un ruolo di raccordo fondamentale nella struttura della azione e della direzione politica della Resistenza del Partito d’Azione in città. Tra gli uomini con cui nel tempo entrò in contatto, stando a quanto riportò suo figlio Adolfo, ci furono anche dirigenti di massima importanza quali, tra gli altri, Emilio Lussu.

Il 7 marzo 1944 sedici militi della Polizia dell’Africa Italiana fecero irruzione nell’ufficio di via Mario de’ Fiori. Enrico Mancini fu arrestato insieme ad altri tre uomini: il conte Dottri, il generale Santoro e l’ex Governatore Motta. Fu trasferito alla Pensione Oltremare e torturato con violenza dalla Banda di Pietro Koch[1]. L’obiettivo evidente delle sevizie era ottenere nomi per far cadere l’intera rete clandestina di cui lui era a conoscenza. Nei tredici giorni, fino al 20 marzo, che trascorse nelle mani della Banda Koch le torture furono ripetute, ma inutili. La famiglia fu, inoltre, coinvolta in una trattativa illusoria finalizzata ad un possibile rilascio, che non venne mai realizzato e che gli costò l’intera fortuna rimanente.  In quel momento, reclusi con lui nella Pensione Oltremare, in Via Principe Amedeo 2, c’erano tanti dirigenti di spicco del Partito d’Azione come Pilo Albertelli. La dimensione orizzontale e fluida della dirigenza politica e militare, non separate a compartimentazione stagna, aveva infatti determinato una maggiore semplicità di infiltrazione per la polizia segreta fascista, favorendo l’arresto di parte dei vertici della resistenza azionista.

 

“Dal 10 al 16 marzo si preparò dal gruppo Eluisi (settore Ponte) l’assalto alla

Pensione Oltremare, in via Principe Amedeo 2, per salvare dagli sgherri di Caruso

e Perrone alcuni dei nostri martiri […]. Improvvisamente i nostri compagni

il 20 marzo furono trasferiti dalla tetra pensione della tortura a Regina Coeli,

quattro giorni prima dell’estremo supplizio[2]”.

 

A Regina Coeli, Enrico Mancini arrivò con una perforazione all’orecchio e con le costole rotte. Nell’ultima lettera che scrisse, indirizzata al figlio Bruno ed oggi conservata al Museo di Via Tasso, emerge l’apprensione per la famiglia e l’amore profondo che lo legavano ai suoi cari, nella piena consapevolezza della condizione dura in cui tutti insieme si trovavano.

 

“E tu, mi raccomando mio caro, tu che sei rimasto l’ultimo in famiglia, prova a

rimanere fuori di casa il meno possibile […].”

 

Il 23 marzo 1944 in Via Rasella, a pochi passi da Piazza Barberini, i GAP portarono a termine la più grande azione di guerriglia urbana realizzata in una Capitale d’Europa contro un intero battaglione nazista: furono trentadue i tedeschi uccisi in pieno giorno. Un’azione che arrivava in un contesto di profonda instabilità a Roma, in cui l’esercito nazista era costantemente bersagliato da attacchi di guerriglia che ne fiaccavano morale ed energie.



[1]Archivio ANFIM, www.mausoleofosseardatine.it , Enrico Mancini, Scheda n°208.

[2]Attività partigiana. Relazione IV Zona Centro, Circolo Giustizia e Libertà, Roma

“Il Comando germanico ha, perciò, ordinato che per ogni tedesco ucciso, dieci

criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito[1]”.

 

L’affronto era senza precedenti: Roma, che nelle previsioni nazisti sarebbe dovuta servire come linea di riserva e ristoro per i soldati impegnati al fronte di Cassino, diventava mese dopo mese un luogo in cui i soldati tedeschi non solo non erano benvenuti, ma non erano più al sicuro.

 

“Alle 9,45 il Caruso, accompagnato dal Ten. Koch, che in quel tempo svolgeva

funzioni di polizia non ben definite, si presentava dal Kappler. Questi spiegava

ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in conseguenza

all’attentato di Via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone arrestate a disposizione

della polizia italiana e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già

compilato una lista di 270 persone.

A conclusione di questo colloquio si stabiliva che il Questore Caruso avrebbe

fatto pervenire al Kappler per le ore 13 un elenco di cinquanta persone[2]”.

 

Nella lista stilata da Pietro Koch figurava, tra i primi, il nome di Enrico Mancini. Il 24 marzo 1944, per ore, nelle cave che si trovavano sulla Via Ardeatina, uomini di ogni età ed estrazione, cattolici ed ebrei, comunisti, monarchici, socialisti, furono trasportati su autocarri e fucilati. Terminata l’esecuzione, per nascondere le prove e occultare la memoria di quanto avevano compiuto, i nazisti fecero detonare l’intera area. Furono 335 gli uomini che in quel giorno trovarono la morte nella brutalità nazifascista. I corpi irriconoscibili e martoriati impiegarono anni per essere riconosciuti.

La morte di Enrico Mancini non fu mai notificata ufficialmente alla famiglia dalle autorità nazifasciste.

Fu solo grazie agli indumenti rinvenuti, a un pettine e agli occhiali che era solito portare, che ne fu possibile, tempo dopo, il riconoscimento. La famiglia perse le attività commerciali, le proprietà e, con queste, l’opportunità di una vita diversa.

Furono più di 50 i caduti del Partito d’Azione quel giorno.

 La memoria di Enrico Mancini rimane oggi viva grazie all’impegno costante dimostrato dai figli nel tramandare questa importante storia familiare alle generazioni che sono venute. Riccardo Mancini, più piccolo tra i figli, ha dedicato l’intera vita al passaggio del testimone della sua storia, raccontando di Enrico e delle Fosse Ardeatine nelle scuole e, ogni anno, al Mausoleo.

I compagni del Partito d’Azione apposero una targa, nel 1947, al Lotto 43 in Via Percoto alla Garbatella, che ne ricorda ancora oggi, con lettere impresse nel marmo, il sacrificio compiuto in nome degli ideali di Giustizia e di Libertà, che neanche le torture e il carcere riuscirono a piegare.

Nel 2020 il ritratto di Enrico Mancini è stato realizzato dall’artista Francesco Pogliaghi sul muro di un palazzo in Piazza Bartolomeo Romano, alla Garbatella. Un volto che racconta la storia di un uomo e che ha l’ambizione di rappresentarne molti: tutti coloro che caddero lungo la strada della democrazia, della libertà e della giustizia sociale, contro l’occupazione nazifascista nella costruzione del mondo nuovo.

 

 ______________________________________________________

[1]Agenzia Stefani, il Messaggero, Roma (25 marzo 1944).

[2]Sentenza n. 631, Tribunale Militare Territoriale di Roma, 20.07.1948.

 

 Bibliografia

G. De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Editori Riuniti, Roma, 1977.

D. Conti, Guerriglia partigiana a Roma, Odradek, Roma, 2016.

A. D’Orsi, L’intellettuale antifascista, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2019.

C. Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi Editore, Torino, 2009.

Attività partigiana. Relazione IV Zona Centro, Circolo Giustizia e Libertà, Roma.

Archivio ANFIM, www.mausoleofosseardeatine.it.

I partigiani d’Italia, Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e

delle donne della Resistenza, www.partigianiditalia.beniculturali.it .

 

 

                                               [ pubblicato da Administrator ]

Pierluigi Sorti ci ha lasciati. Un galantuomo d’altri tempi

[articolo pubblicato su “AVANTI-online” il 10/09/2021]

 

 George Orwell sostiene che “In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Viviamo in un mondo dove la tecnologia, la digitalizzazione, i social possono influenzare e trascinate intere folle.
“La menzogna, ben agghindata così da sembrare una ovvietà scontata – scriveva il cardinale Gianfranco Ravasi nella sua rubrica domenicale su Il Sole24 ore – si incammina per strade e piazze, entra nei palazzi dei potenti e nelle case modeste con la sua capacità diffusiva. Opporre ad essa la verità nella sua nudità, nella sua sincerità sgradita, nella sua essenzialità fondata è, alla fine, un atto che va controcorrente. E risalire in senso contrario l’onda sovrabbondante della menzogna, del luogo comune, dell’inganno è un’impresa ardua e coraggiosa”.
È quello che Pierluigi Sorti si proponeva riuscendo a realizzarla con pazienza e con competenza nel libro che stava ultimando per la nostra fondazione dal titolo “Teorema sull’euro. L’iniquità del metodo di conversione nella moneta europea”.
Pierluigi è stato un europeista convinto. Schietto. Entusiasta. Deciso.
Non si è mai arreso. Ostinato e determinato. È stato tra coloro che volevano realizzare l’integrazione economica, sociale e politica dell’Europa. Valorizzare il dialogo, il confronto.
Non credeva, pensava.
Non era pessimista come Anton Cechov che invece amaramente ammetteva: “Si dice che la verità trionfa sempre, ma questa non è la verità”.
Ora che improvvisamente ci ha lasciati, in questo scorcio di fine estate, sentiamo fortissimamente la sua mancanza.
Non è retorica, né semplici frasi di circostanza; ci manca veramente.
Ci manca quella sua genuina voglia di capire, di confrontarsi sempre, di cercar di rendere semplici le cose più complesse.
Quella sua gentilezza d’altri tempi.
La sua amicizia è stata un motivo di orgoglio e ciò che ha seminato sarà per noi un raccolto prezioso.
Grazie Pierluigi

 

Giorgio Benvenuto  -  Presidente Fondazione Bruno Buozzi

                                                                      [pubblicato da Administrator]

84° Anniversario uccisione fratelli Rosselli - Tavola rotonda

                                                                                           [pubblicato da Administrator]

ID falsi - le libertà vengono in diverse forme e sapori

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