Logo01
GIUSTIZIA E LIBERTA'
e-mail: circologiustiziaelibertaroma@yahoo.it
Logo01
M E M O R I E
pagina 2 di 2

27 GENNAIO

Il Circolo non può dimenticare questo giorno. Non è un obbligo che oggi si debba parlare della Shoah. Il suo ricordo è già dentro tutti gli uomini e le donne che hanno sofferto nella vita o hanno provato sofferenza quando hanno saputo. Tutti questi esseri morti senza sepoltura vivono ancora, anche se nel vento, mentre nella maggioranza degli altri il ricordo muore col tempo sotto la terra che li ricopre. Ma ci sono tante persone nel mondo che quando portano un fiore ai loro cari sentono di portarlo anche ad altri morti che fanno anch’essi parte per sempre del loro dolore. Il “grande male”,, come definiscono gli armeni l’eccidio del loro popolo, corre ancora di paese in paese del nostro mondo attuale, sparge sangue e trova sdegno od indifferenza come una volta. E’ pensando al futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti che ci sentiamo in dovere di far loro sapere quanto la Shoah ha sconvolto la nostra vita, facendoci comprendere l’abisso che separa le violenze alle persone e le violenze all’umanità. Quest’ultime sono così profonde da entrare nelle coscienze dei popoli, quelli colpevoli e quelli innocenti, cambiandone per sempre l’identità attraverso un segreto rimorso perenne o una palese ferita irrimarginabile. Sapere quanto è avvenuto, palesare le nostre commozioni aiuterà le nuove generazioni a difendersi dal ripetersi del male.

Guido Albertelli

Roma, 27/01/2008

-----------------------------------------------

A SOCI E SIMPATIZZANTI

Roma, 8/12/2007

Pietro, Pietro Amendola non c’è più. Il Circolo Giustizia e Libertà subisce un’altra perdita. Ci viene sottratto un affetto radicato . Perdiamo un socio che rappresentava un esempio di vita. Se dobbiamo raffigurarlo nella nostra memoria, lo immaginiamo come una roccia. Nato nel 1918, da piccolo perde il padre Giovanni e quella morte segnerà il destino dei fratelli Amendola. Si iscrive al PCI a 19 anni e possiamo dire che sarà un legame ideale per tutta la sua vita. Attivo nell’antifascismo da studente viene nel 1940 processato e condannato a dieci anni di carcere. Esce finalmente dopo il 25 luglio e si getta nella Resistenza. Nel dopoguerra inizia la sua attività politica, diventa deputato nel ’48 e continua per sessant’anni nelle varie cariche ricoperte a svolgere con determinazione e coerenza il ruolo di protagonista nelle lotte della sinistra e nell’impegno a trasmettere la memoria nobile dell’antifascismo. Era sempre disponibile per incontri e manifestazioni. Aveva una dote straordinaria. Parlava con una esemplare semplicità di stile e di concetti avendo eliminato dal suo dire ogni retorica. Queste figure, di riferimento per noi, scompaiono e noi ci ritroviamo non solo più soli ma più poveri. perché la morte distrugge i pochi giganti rimasti che ci proteggevano in questo paese di nani violenti.

Guido Albertelli
----------------------------------------------------------------------

Roma 10/11/2007

Il presidente del Circolo Giustizia e Libertà di Roma Guido Albertelli e i componenti del Consiglio direttivo, Neva Baiada, Elena Baldazzi, Carlo Baldi, Francesco Fabrocile, Fabio Galluccio, Aladino Lombardi, Franca Paniconi, Salvatore Rondello, Walter Spinetti e Mario Tempesta

testimoniano il loro profondo dolore per la scomparsa dell’amica

GIGLIA TEDESCO TATO’

una grande persona che ha dedicato la vita agli ideali, alla politica, alle Istituzioni ,
all’affermazione dei diritti delle donne con un impegno raro e coerente.

-----------------------------------------------------

Roma 14 Settembre 2007

IN MEMORIA DI GAETANO ARFE'

Desideriamo rendere omaggio alla figura di Gaetano Arfè, componente della Presidenza onoraria del Circolo,scomparso ieri.
Era un grande storico, un parlamentare, uno scrittore e, ricordiamolo, un partigiano di Giustizia e Libertà.
Era una di quelle figure, oggi molto rare, di riferimento della cultura laicosocialista, radicata alle tradizioni autentiche ed indistruttibili nella storia di questo paese.
E' con vivo dolore che perdiamo una personalità di coerenza e coraggio nella difesa degli ideali in cui crediamo.

Guido Albertelli

-----------------------------------------------------------------

Intervento di Guido Albertelli alla presentazione del libro "Pilo Albertelli"
al Museo della Liberazione di Via Tasso a Roma

Roma, 23 marzo 2007

Se si dovesse sinteticamente definire Pilo Albertelli scegliendo tra gli aspetti della sua vita breve ed intensa perché finì a 37 anni:
antifascista ventenne, 21enne in cella a Milano con Ugo La Malfa,
condannato al confino e poi a sorvegliato speciale per 15 anni,
professore di liceo,filosofo autore di opere ancora oggi studiate,
capo partigiano, martire medaglia d’oro,
io direi professore.
Perché nella scuola si può essere educatore di coscienze e questo lui è stato, come ricordano tutti i suoi alunni del tempo.
Il riconoscimento di questa dedizione ai giovani è dato dal fatto che a suo nome sono state titolati i luoghi dove ha insegnato: tre scuole, a Parma, a Livorno e a Roma e la biblioteca del liceo di Formia, dove Pietro Ingrao, suo alunno, lo ricorda come formatore di pensiero anche politico.
Se pensiamo che le autorità del dopoguerra, in un dopoguerra votato alla pacificazione, pensarono di togliere al liceo Umberto, il primo liceo pubblico fondato nella capitale dopo l’unità d’Italia,il nome di un re per sostituirlo con quello di mio padre, si puo comprendere l’ammirazione del tempo per una figura non comune.
La scuola è l’esperienza più significativa nella vita di ognuno. I ricordi di classe, i nomi dei professori avuti, dei compagni di banco,i risultati degli esami rimangono dentro di noi vivi fino a quando siamo vecchi.
Alla scuola Albertelli di Parma, dove mio padre era meno conosciuto che a Roma, è nata la volontà di dare ad un nome anche un volto, una storia, un significato che ha spinto il preside e i professori ad aprire con gli alunni una ricerca che ha creato il libro. Più grandi erano le azioni di cui venivano a conoscenza più l’umanità dell’uomo si delineava.
E così ne è venuto fuori un racconto semplice e commovente.
La giovinezza non conosce la retorica ma ha vive le sensazioni della vita vera.
Puoi diventare un buon cittadino se sei educato in famiglia ad esserlo.
Puoi essere un buon insegnante se sei convincente e credibile.
Puoi parlare di libertà e giustizia se fuori della scuola nei fatti ti impegni per esse.
Mio padre non esitò a vivere la sua esperienza di combattente della Resistenza nelle file delle formazioni Giustizia e Libertà del Partito d’Azione delle quali era diventato il comandante sostituendo Gianni Ricci.
Con lui c’erano centinaia di partigiani. Ricordo Errico Mancini,Armando Bussi, i fratelli Nassi, Aldo Eluisi, Cencio Baldazzi,Fernando Norma,Tommaso Carini,Ugo Baglivo e molti altri,alcuni dei quali hanno oggi qui i loro parenti. 3
Mio padre non era uomo di guerra ma si identificò nel ruolo di capo a Roma della resistenza del Partito d’Azione con una determinazione legata al principio laico del dovere e del sacrificio.
Lo studioso, il mite intellettuale sparò a Porta S.Paolo, trasportò armi, gettò bombe nelle sedi tedesche, fu compagno fraterno di popolani in armi, educatore di giovani studenti alla lotta al nazifascismo, esempio di coraggio anche sotto le torture.
Durante i 20 giorni di sofferta prigionia nella Pensione di Via Principe Amedeo fù stoico ma ebbe due momenti di debolezza.
Avvennero quando gli aguzzini gli dissero che se non parlava sarebbero andati a prendere la moglie e i figli. Allora tentò per due volte di togliersi la vita.
Questa figura autorevole e semplice ad un tempo, pessimista e affascinante, democratica e inflessibile, fu temuta dagli avversari che lo braccarono senza tregua e lo afferrarono solo col tradimento.
Contribuì a dare al Partito d’Azione a Roma il ruolo di coprotagonista, con il partito comunista, di una Resistenza popolare vissuta con onore fino alla morte di molti dei suoi iscritti,fedeli agli ideali di Gobetti,Amendola,Rosselli, Calogero, La Malfa e Lussu.
Negli otto mesi dell’occupazione di Roma noi figli non sapemmo niente di quello che faceva.
Cambiavamo spesso casa ed i trasferimenti senza cose si facevano quasi sempre a piedi poco prima del coprifuoco.
Con nostra madre,mai con lui, in noi figli l’impressione di essere fuggiaschi e un po’impauriti e niente più.
Solo il giorno che venne preso, il 1°marzon’44,e non venne a casa e arrivarono invece a tarda sera i fascisti della banda Kock vocianti e con le rivoltelle in pugno, fù quel giorno che iniziammo a capire qualcosa, ma mai a pensare che saremmo stati orfani di un padre straordinario.
Il suo esempio ci ha accompagnato sempre, inserito nel ricordo di un compianto tempo degli ideali e del coraggio, comune a mille e mille partigiani di fede diversa,periodo di vita così nobile da essere considerato il migliore da chi è sopravissuto.

Guido Albertelli
-----------------------------------------------

Il saluto di Vittorio Cimiotta al funerale di Aldo Visalberghi
(svoltosi presso la Facoltà di Lettere dell'Università la Sapienza di Roma)

Roma, 14 Febbraio 2007

Caro Aldo,

pensando alla tua vita, ai pericoli che hai attraversato durante la lotta partigiana, oggi, in questa sede con commozione cerco il coraggio di parlarti.
Stavolta non vengo a chiederti la supervisione di un mio saggio o di un mio articolo come ho fatto tante volte. Sei stato sempre prodigo con me di ottimi suggerimenti e consigli. Stavolta vengo a chiederti l’ultima lezione di vita.
Sono qui, oltre che a titolo personale, anche a nome della F.I.A.P. (Federazione italiana associazioni partigiane) di cui eri socio, della Federazione nazionale Giustizia e Libertà di cui facevi parte nella Presidenza Onoraria, del Movimento d’Azione Giustizia e Libertà di Torino e dell’ANPI di Roma.
La morte non può prevalere fino a quando esiste il ricordo. Noi di Giustizia e Libertà e delle associazioni partigiane, che ho l’onore di rappresentare, ti dobbiamo molta gratitudine. Molto da te abbiamo ricevuto. Per questo motivo resterai sempre nella nostra memoria e nei nostri pensieri più cari.
Mi vengono alla mente alcuni episodi della tua vicenda umana.
Appena ventitreenne hai conseguito la laurea alla Scuola Normale di Pisa. Hai avuto il privilegio di avere come professore Guido Calogero e subito hai condiviso l’indirizzo politico liberalsocialista che lo stesso aveva elaborato nella clandestinità con Aldo Capitini.
Sempre a Pisa hai conosciuto Carlo Azeglio Ciampi ed è iniziata una amicizia durata tutta la vita.
Non hai esitato dopo l’Otto Settembre del 1943 a passare con Pilo Albertelli nelle fila della Resistenza romana nelle formazioni Giustizia e Libertà. Successivamente sei stato inviato come ispettore di questa formazione in Piemonte. Hai collaborato attivamente con Duccio Galimberti, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti, Norberto Bobbio e altri. Con convinzione profonda hai aderito al Partito d’Azione dove erano confluiti i liberalsociasti di Calogero, i socialisti-liberali di Carlo Rosselli, i liberali di Piero Gobetti e gli amendoliani.
Con incredibile coraggio hai affrontato la lotta partigiana con Duccio Galimberti, Giorgio Agosti, Alessandro Galante Garrone e con tanti altri eroi del nostro tempo. In molte occasioni hai messo a repentaglio la tua stessa vita. E quando nel 1944 sei stato arrestato, solo grazie all’intervento di Alessandro Galante Garrone che faceva parte del CLN, sei tornato libero.
Nelle terribili vicende che hanno attraversato il novecento non sei stato un testimone passivo, ma un protagonista attivo. Strenuo difensore della causa della libertà e della civiltà occidentale. Cosi hai dato un alto significato alla tua vita.
Delle personalità di Giustizia e Libertà, Gaetano Arfè ha scritto: “la storia di uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti e che del loro operare hanno lasciato un segno incancellato e incancellabile”.
All’improvvido scioglimento del Partito d’Azione nel 1947 hai continuato ad essere azionista.
Come non ricordare l’entusiasmo quando nel 1993 con Aldo Garosci, Leone Bortone, Vittorio Gabrieli, Giorgio Parri, Cecchetti, Neva Baiada e Nicola Terracciano fondammo il Movimento d’Azione Giustizia e Libertà? E quando nel 1996 costituimmo con Alessandro Galante Garrone, Ettore Gallo, Paolo Sylos Labini,Vito Laterza, Antonio Giolitti, Giuseppe Bozzi e Roberto Borrello il “Comitato per la trasparenza delle cause di ineleggibilità parlamentare e dei conflitti di interesse”? Nobile battaglia politica che, purtroppo, il machiavellismo sacrificò.
Caro Aldo, mi sento fortunato e onorato di averti conosciuto. Il tuo esempio e il tuo insegnamento mi hanno arricchito sia dal punto di vista umano che intellettuale. Lasci un grande patrimonio morale, oggi, più che mai necessario.
Aldo, riposa, riposa in pace.
L’impegno continua anche nel tuo nome.

Vittorio Cimiotta
-----------------------------------------------

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Roma, 26 gennaio 2007

Lo sterminio degli ebrei nella seconda guerra mondiale, è, nella storia umana, il più grande assassinio operato ai fini di un progetto politico. Vi è stato certamente un numero maggiore di morti tra soldati e civili durante le grandi guerre ma lo spirito,la filosofia, la metodologia dell’Olocausto di milioni di ebrei sono eccezionali come livello criminale e livello di coinvolgimento del popolo nazista. La fabbrica della morte, così si potrebbe definire l’organizzazione ideata e realizzata dai tedeschi per sterminare un popolo “ inferiore” secondo la cultura nazista coltivata per undici anni nelle scuole, nelle chiese, nelle industrie e negli eserciti della Germania. Era considerato un dovere l’eliminazione delle popolazioni “deboli”come anche i nomadi e i disabili. Cosi si decise la “soluzione finale”. Non fu una decisione del solo Hitler, non è vero. Fu invece un’attitudine culturale e mentale dei nazisti nel suo insieme. Nella formazione e applicazione di questa operazione tecnica di sterminio tutti i nazisti vissero inflessibilmente l’annullamento radicale della coscienza morale di fronte alla sofferenza umana. Gli ebrei non dovevano solo morire ma dovevano anche soffrire. Partivano dall’Italia e dall’ Ungheria, dalla Francia e dalla Jugoslavia i treni merci diretti ai lager nazisti. Ma coloro che occupavano quei vagoni piombati non sapevano dove andavano e cosa sarebbe avvenuto quando sarebbero arrivati. Non potevano uscire, non potevano bere. Scrivevano biglietti che lanciavano dalle fessure dei vagoni appena si fermavano in una stazione: “Sono Settimia Levi. Abito a Roma a piazza delle Cinque Lune. Avvisate mia sorella che sto bene e non si preoccupi”. Mille e mille di quei treni giunsero nei posti che ora sono diventati sacri anche per chi non c’era. Chi ne è uscito vivo ed è tornato, non ci vuole pensare più e non vuole raccontare. Sul braccio porta anche lui un tatuaggio ma non è quello di moda adesso. E’ solo un numero. Un numero meno di quello di sua madre ed uno in più di quello di suo fratello, numeri saliti in cielo attraverso un camino. Ed ecco che, finita la guerra, il mondo si accorge infine di quanto successo agli ebrei. Anche la maggioranza dei tedeschi scopre questa grande ignominia e se ne vergogna. I governi decisero di istituire il ”Giorno della Memoria” nel quale si ricordi chi non è stato ucciso per caso, ebreo o non ebreo, nella Shoah o a Marzabotto, a Cefalonia o alle Fosse Ardeatine. Cosi nessuno potrà dire io non sapevo ed ognuno coltiverà la speranza che il mondo dei mostri sia finito.

Guido Albertelli

-----------------------------------------------

(DA SLAVIA trimestrale di cultura romano)
SCAMPOLI DI MEMORIA

A Roma,in via Romagna, sulla bianca e nuda facciata di un elegante edificio moderno, c’è una lapide incastonata tra i blocchi di travertino che la ricoprono. C’è scritto: “Requisita dalla banda fascista del ten. Pietro Koch,

LA PENSIONE JACCARINO,
ubicata in un villino che qui sorgeva, divenne luogo di detenzione e torture per molti patrioti che lottavano per la libertà dal nazifascismo. Molti ne uscirono soltanto per essere avviati al plotone di esecuzione.
Per non dimenticare.

Roma occupata, Settembre 1943 – Giugno 1944”.
Uno di quei patrioti era mio padre, Angelino (Timoteo) Bernardini.

Io non dimenticherò mai quel terribile inverno del 1943. Ancora oggi, quando qualche emittente televisiva trasmette “Roma città aperta” di Roberto Rossellini, faccio fatica a resistere davanti allo schermo per tutta la durata del film. Non c’è praticamente episodio che non mi ricordi qualcosa di analogo della storia della nostra famiglia. Per esempio, quando nel film i tedeschi bloccano i due accessi di una strada e requisiscono tutti gli uomini validi che in quel momento, magari per caso, si trovano a passare di lì. Poi i nazisti passano a perquisire tutte le case che si affacciano sulla strada, arrestano tutti gli abitanti maschi e li ammassano nei camion insieme con quelli arrestati per strada. Il loro destino è la Germania. Per fortuna, si fa per dire, non verranno avviati ai campi di sterminio ma alle fabbriche tedesche, che hanno bisogno di mano d’opera. Ebbene, fu così che mio cugino Pietro, quindicenne, si ritrovò in uno di quei camion. Lungo il viaggio verso il nord, a una ventina di chilometri da Roma, i caccia americani presero a mitragliare l’autocolonna tedesca e nel parapiglia molti di coloro che erano a bordo riuscirono a fuggire. Pietro tornò a casa a piedi, più morto che vivo. Avevo undici anni quando, una notte di dicembre del 1943, gli aguzzini della banda Koch vennero in casa nostra e portarono via mia madre e mio fratello Ezio, diciassettenne. Mio padre era già stato arrestato per strada. Rimanemmo soli, io e mia sorella Silvana, 15 anni. Per fortuna in quel periodo era ospite in casa nostra la famiglia di una sorella di mia madre, zia Cleofe, sfollata da Genzano. Nella allora famigerata pensione Jaccarino mio padre, mia madre e mio fratello vennero picchiati e torturati per giorni, ciascuno davanti agli altri. Lo scopo era quello di farli parlare, di costringerli a rivelare i nascondigli della resistenza romana, che in realtà soltanto mio padre conosceva. Dopo qualche giorno, mi pare di ricordare che mio fratello venne trasferito a Regina Coeli (ma non ne sono sicuro, perché per tutti gli anni trascorsi dopo la liberazione di Roma io e tutti i membri della famiglia abbiamo sempre evitato di rievocare quei giorni, quasi a volerli rimuovere), mentre mia madre fu trasferita nella prigione femminile delle Mantellate. Mio fratello conservò per il resto della vita una traccia visibile di quei giorni: un dente spezzato da un calcio. Mio padre continuò ad essere torturato. Quando perdeva i sensi, lo buttavano in cantina, in un ripostiglio dove non era possibile stare distesi. Dopo qualche ora, lo riportavano di sopra e ricominciavano le torture. Finito l’ennesimo interrogatorio, riprese i sensi nel suo bugigattolo ed ebbe paura di non poter resistere ancora a lungo senza rivelare i nomi dei suoi compagni. Scorse in terra un bicchiere di latta, riuscì a spezzarne il bordo e con quello si tagliò le vene dei polsi e degli stinchi. Quando i suoi torturatori scesero di nuovo, lo trovarono in un lago di sangue e privo di sensi. Era in coma. Lo trasportarono all’ospedale e lì la prognosi fu che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Venne comunque ricoverato in corsia. Gli uomini della banda Koch se ne andarono e non lasciarono nemmeno un piantone di sorveglianza, date le sue condizioni. Quando uscì dal coma, scoprì di trovarsi in una normale corsia del Policlinico Umberto I. Era l’ora della visita dei parenti. Chiese a un visitatore del suo vicino di letto la cortesia di andare a informare i familiari del suo ricovero. Ormai in corsia tutti sapevano come quel paziente fosse finito lì. Così, quella sera stessa venne da noi un giovane che, con qualche imbarazzo e anche con il timore che la polizia lo avesse seguito, ci disse che nell’ospedale c’era qualcuno, forse un nostro parente, che avrebbe voluto vederci. Il giorno dopo, all’ora della visita, io e mia sorella andammo all’ospedale. Mio padre stava dormendo. Da qualche giorno non veniva più picchiato e torturato, ma il suo corpo era tutto ricoperto di ecchimosi. Nelle orecchie c’era del sangue secco. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse nero di lividi. Mi sentii male, provai uno strano senso di nausea, ma feci uno sforzo per non farlo capire e mi allontanai. Andai a una finestra a respirare. Ancora qualche giorno e, mi pare, mia madre uscì di prigione. Si ricordò che un suo cugino, monsignor Caraffa, insegnava alla Pontificia Università Lateranense, vicino a casa nostra. Andò a chiedergli se poteva far accogliere mio padre nel complesso della basilica di S. Giovanni, che godeva dell’extraterritorialità. Non c’era posto, perché ormai tutti i vari pezzi di Roma che tuttora compongono la Città del Vaticano erano pieni di rifugiati, ebrei, resistenti, cattolici e non. Tuttavia un posto si trovò. Così, nell’ora della visita, mio padre scese in pigiama nel cortile dell’ospedale e, confuso tra la folla di pazienti e visitatori, uscì dal Policlinico e salì su un camion che l’attendeva. Durante l’occupazione tedesca tutti gli accessi al territorio vaticano erano vigilati, da un lato dalle guardie vaticane, dall’altro dalle sentinelle tedesche. Ricordo che anche il colonnato del Bernini era chiuso da una sorta di staccionata di legno con un piccolo varco al centro, attraverso il quale la gente entrava e usciva liberamente, ma sotto lo sguardo delle guardie svizzere e dei militari tedeschi. Analoga era la situazione delle basiliche extraterritoriali di San Giovanni, San Paolo e Santa Maria Maggiore. Sul retro della basilica di San Giovanni, vicino al Battistero, c’è una cancellata che adesso è sempre aperta, ma che allora lasciava aperto soltanto un varco. Il camion entrò senza impedimenti in territorio vaticano, come se dovesse fare un trasporto per la chiesa. Mio padre venne sistemato in un piccolo e stretto corridoio dove c’erano due lettini addossati al muro sullo stesso lato. Il suo compagno di corridoio era un ebreo, Sergio Limentani. Tra i letti e la parete opposta c’erano soltanto pochi centimetri, appena sufficienti per passare mettendosi di fianco. Durante tutto il giorno i due occupanti stavano in cortile, all’aperto. Per fortuna non ricordo che in quei mesi piovesse. Io andavo tutti i giorni a portare da mangiare a mio padre, passando sotto lo sguardo indifferente delle sentinelle tedesche, che naturalmente sapevano tutto, ma non mi dissero mai nulla. Mio padre uscì da San Giovanni il 4 giugno 1944, quando i primi carri armati americani entrarono a Roma e si fermarono sul Piazzale Appio, in vista di San Giovanni. Dopo la fine della guerra mio padre, con due condanne del Tribunale Speciale fascista, ex confinato, eroe della Resistenza, venne eletto segretario della sezione PCI del quartiere Latino-Metronio. L’Unione Sovietica era sempre stata il suo mito, l’elemento che gli aveva dato la forza di tirare avanti negli anni bui del fascismo. Così, nel 1958 (o 1959?) approfittò della mia presenza a Mosca per visitare finalmente la “patria del socialismo”. Era estate, l’università Lomonosov era semivuota, le lezioni e gli esami erano finiti. Mi procurai una brandina supplementare e per una decina di giorni mio padre visse con me nella mia stanzetta (Zona G, quinto piano, stanza 503). La mattina io mi alzavo tardi, ma lui no, scendeva nel giardino della nostra zona G e con un coltellino raccoglieva la “cicorietta” (così la chiamava) che cresceva sui prati. Si meravigliava che nessuno facesse altrettanto, che quella buona insalata si sprecasse. Poi tornava in camera nostra, la lavava e la metteva da parte per la sera. Nel frattempo io mi ero lavato e vestito. A quel punto, sempre in compagnia di almeno altri due studenti italiani, si andava in centro a pranzare al ristorante georgiano Aragvi, dove immancabilmente ordinavamo il famoso pollo kabakà, che era poi il pollo alla diavola. La libagione era abbondante. Mio padre si faceva un dovere di pagare quasi sempre il conto per tutti. Scendevamo giù per via Gor’kij tutti un pò brilli, prendevamo l’autobus e tornavamo a casa, cioè all’università . La sera cenavamo nella nostra stanza a base di carne in padella con contorno di “cicorietta”. Avevamo spesso qualche ospite italiano. Dopo cena venivano sempre altri studenti italiani con i quali organizzavamo tornei di scopone. Chi perdeva faceva il caffè, ma non toccava quasi mai a noi, perché mio padre e io formavamo una coppia imbattibile. Di quel soggiorno moscovita ricordo una sua osservazione critica su una cosa da niente, alla quale, abituato com’ero alla quotidianità dell’URSS, non avevo mai fatto caso. Faceva caldo e la porta del grattacielo centrale dell’università che si affacciava sulla nostra zona G era tenuta aperta da un grosso sasso che le impediva di chiudersi. Mio padre mi chiese se c’era stato un guasto recente, se si fosse in attesa di una riparazione. Gli spiegai che d’estate era sempre così. Per me era normale, perché l’importante era lasciar entrare l’aria nell’ampio salone del piano terra. “Ma come”, esplose mio padre, “in un grattacielo moderno come questo, in una università prestigiosa, per tenere aperta una porta si ricorre a un macigno!”. Fu l’unica critica che gli scappò allora. La sua fede nel socialismo gli impediva di fare troppe critiche davanti a noi studenti. Seppi poi da mia madre che in privato aveva espresso forti critiche nei riguardi del cosiddetto “socialismo reale”. Morì di tumore il 19 marzo 1960. Nel trigesimo della sua morte l’Unità pubblicò un lungo necrologio preceduto da questa nota: “ Il 19 marzo scorso decedeva a Roma Angelino Bernardini, vecchio e popolare compagno, iscritto al Partito sin dalla fondazione, valoroso combattente della libertà, attivo dirigente comunista nel quartiere San Giovanni. Nel trigesimo della morte, i compagni di Genoano [dove egli era nato] e della sezione di Porta S. Giovanni ricordano commossi Angelino Bernardini”. Seguiva il necrologio scritto da Carlo Salinari, amico fraterno, anche lui sopravvissuto alle torture (ma ad opera della Gestapo in via Tasso), che dopo la guerra fu professore alla Sapienza di Roma, diresse il prestigioso mensile di cultura Il Contemporaneo e fu autore di una Storia della Letteratura Italiana. Scriveva tra l’altro Carlo Salinari: “la semplicità e il coraggio erano un’altra caratteristica della personalità di Angelino. Con semplicità e coraggio affrontò, nel periodo fascista, il carcere e il confino, che significarono anche la sua rovina finanziaria. Preso nel 1944 [1943?] dalla banda Koch, per non parlare sotto la tortura, fece con semplicità e coraggio una cosa che nessuno di noi seppe fare: si tagliò le vene dei polsi, tentando di suicidarsi […]. Vogliamo ricordarlo non solo perché ci era amico e con lui avevamo combattuto in momenti terribili, ma anche perché, ci sembra, possa servire di esempio a tutti”. (l’Unità, 19 aprile 1960, p. 4).

Dino Bernardini

-----------------------------------------------------------

"EMILIO LUSSU"

uomo politico di sinistra,antifascista combattente,onesto e coerente

Uno dei fondatori del Circolo Giustizia e Libertà di Roma è stato Emilio Lussu morto a Roma nel 1975 all'età di 85 anni,nato ad Armungia in provincia di Cagliari nel 1890,aveva fondato nel 1929 nell'esilio a Parigi con Rosselli, Salvemini ed altri il movimento di opposizione al fascismo "Giustizia e Liberta '".
E' stato un grande italiano, uomo politico onesto e di sinistra che ha dedicato la sua vita alla realizzazione i di una società libera e democratica, fu confinato a Lipari,fuggi ' dal confino, rischiando la vita opero' nella clandestinità e dopo la Liberazione dell'Italia, fece lotta politica in Parlamento.coerente con i suoi sani principi di sinistra.
Disapprovo' i compromessi e ogni tipo di opportunismo,di elevata moralità, subì violenze e persecuzioni e rinuncio ' a possibili benefici o privilegi per non rinnegare le sue idee .
E' pur vero che Giuseppe Fiori in una sua biografia nel definirlo di carattere dice:"un uomo di carattere è anche di cattivo carattere".
Lussu ha sempre pagato di persona per l'affermazione delle sue idee,ha mostrato coraggio fisico, generosità, non ha cercato mai il proprio arricchimento e ha disprezzato la corruzione.
Egli ha amato moltissimo la sua terra di origine ed ha operato per la costruzione di una società democratica che ponesse su un terreno di parità gli interessi e le culture di tutte le regioni italiane e quindi il suo federalismo costituito da autonomie di base e da democrazia popolare diffusa è di ispirazione unitaria e solidale a conferma dei principi professati da "Giustizia e Libertà".
Ha scritto molte opere in cui ha raccontato le sue esperienze di vita ed espresso le sue idee.
Si laureò a Cagliari in Giurisprudenza,partecipò alla prima guerra mondiale nella Brigata Sassari con il grado di capitano ,nel libro "Un anno sull'altipiano " pubblicato nel 1938 e scritto durante la convalescenza di una grave malattia descriverà gli orrori della guerra.
Rientrato in Sardegna dopo la fine del conflitto fu tra i fondatori del Partito sardo d'azione,deputato al Parlamento dal 1921 al 1926 e si schierò apertamente contro il fascismo.
Il 31 ottobre del1926 dopo che il regime fascista lo aveva dichiarato decaduto dal mandato parlamentare fu assalito nella sua casa a Cagliari da un gruppo di fascisti e per legittima difesa uccise uno degli assalitori. Assolto dalla Magistratura ,venne inviato dal regime al confino di Lipari da dove nel 1929 riuscì ad evadere in motoscafo con Fausto Nitti e Carlo Rosselli,raggiungendo prima Tunisi e poi Parigi.
Racconterà poi nei suoi scritti,"La Catena" e "Marcia su Roma e dintorni"le vicende degli anni dal 1919 al 1929. Nel 1930 fu tra i fondatori a Parigi del movimento antifascista "Giustizia e Libertà".
Pur essendo gravemente malato continuò nella sua azione politica collaborando assiduamente al settimanale ed ai quaderni del Movimento. Subì un intervento chirurgico ai polmoni e durante la convalescenza scrisse "Teoria dell'insurrezione"un manuale per rivoluzionari che teorizza la lotta partigiana e successivamente"Un anno sull'altipiano".
Partecipò poi alla guerra di Spagna contro il franchismo nelle Brigate Garibaldi e rientrato a Parigi nel 1937 per i funerali dei fratelli Rosselli,assassinati dai fascisti, ereditò la conduzione del Movimento Giustizia e Libertà.
Durante la seconda guerra mondiale operò con la moglie Joyce, nella clandestinità prima in Francia e poi in altri paesi d'Europa,collaborando con le forze Alleate contro il nazifascismo ed aiutando molti antifascisti e ricercati ad espatriare in Africa nei territori non controllati dai nazifascismi.Racconta questa sua esperienza in "Diplomazia clandestina"
Dopo cinque anni trascorsi all'estero in vari paesi,nel 1943 con la moglie Joyce tornò in Italia e partecipò alla resistenza nelle file del Partito d'Azione.
Finita la guerra entrò a far parte,come ministro dei Governi Parri e del primo De Gasperi.
Nel 1946 fu eletto deputato dell'Assemblea Costituente e dopo lo scioglimento del Partito d'Azione confluì nel Partito Socialista Italiano.
Sulla vita del Partito d'Azione scrisse "Sul Partito d'Azione e gli altri"e sull' attività parlamentare "Il cinghiale del diavolo" . I suoi discorsi parlamentari sono stati pubblicati dal Senato della Repubblica a cura di Manlio Bragaglia .
Nel 1964 quando il P.S.I. formò il primo governo con la Democrazia cristiana, partecipò alla scissione che diede vita al P.S.I.U.P.(Partito Socialista di Unità Proletaria),partito che dopo breve tempo a seguito di una sconfitta elettorale confluì nel P.C.I. ma Emilio Lussu , coerentemente con le sue idee di socialista libertario e di sinistra come aveva rifiutato l'alleanza di governo con la Democrazia Cristiana così non accettò di aderire al P.C. I
La sua vita si spense a Roma nel marzo del 1975.
Le opere ed il pensiero e gli insegnamenti di questo grande personaggio, veramente di sinistra,non sembrano essere adeguatamente apprezzati dalla nostra classe politica e comunque Emilio Lussu per l'impegno profuso nella lotta per permettere all' Italia di avere una società democratica e per i sacrifici sostenuti per combattere la dittatura meriterebbe di essere meglio ricordato e fatto conoscere .
In questi anni in cui l'Italia sta conoscendo un periodo di declino morale ed economico merita di essere anche ricordata e considerata come suo insegnamento".. la sua testimonianza di democratico..", come ebbe a dire in un suo discorso dopo la fine della seconda guerra mondiale,."..l'atto di fede di un esule il quale nei momenti più gravi della sua vita in cui ha avuto scoramenti e dubbi non ha mai disperato dell'avvenire e delle sorti del suo paese".

Carlo Baldi
-------------------------------------------------------------------------------------------

"Ricordando Cencio"

“Ero sul battello che mi portava a casa a Ponza quando vivi sul ponte un gruppo di uomini incatenati tra loro con ai lati della catena due carabinieri .
Mi prese una tale tristezza per quella disumanità che non potei esimermi dall’avvicinarmi e trasmettere la mia solidarietà tramite un grande sorriso ad uno di loro”.
L’uomo era il confinato Vincenzo Baldazzi detto Cencio.
Così iniziò un amore.
Sono le poche parole che ha pronunciato Elena ,la moglie di Cencio, dell’età di 94 anni, nell’incontro che si è tenuto al Circolo Giustizia e Libertà di Roma il 10 giugno per commemorare l’antifascista che ne fu uno dei fondatori.
Cencio Baldazzi ebbe una vita piena, fin da ragazzo, come ha raccontato il pronipote Walter Spinetti (vedi articolo di seguito).
Nasce a Genzano nel 1898 e muore a Roma nel 1982. Già all’età di 14 anni aderisce ai Circoli Repubblicani, volontario in guerra viene ferito e resta mutilato.Nel ’21 fonda con A.Secondari, A.Eluisi ed altri il movimento degli Arditi del Popolo, nato per difendere dalle aggressioni fasciste le sedi del movimento operaio.Gli anni che seguono sono per Cencio anni di impegno antifascista attivo e di sacrificio.
Viene sistematicamente arrestato e nel ’26 inviato al confino in varie località. Torna a Roma solo nell’agosto del ’43 ed inizia la sua attività nella Resistenza nell’organizzazione del Partito d’Azione insieme a Bauer, Albertelli, Rossi Doria, Fancello, La Malfa, Lussu, Eluisi, Norma, Gabrieli ed altri .
Innumerevoli sono la sue azioni contro i nazifascisti a cominciare dalla difesa di Roma a Porta S.Paolo.
Mitiche sono rimaste due sue doti, la capacità di essere un animatore di antifascismo specialmente nel quartiere Trionfale dove viveva ed il coraggio dimostrato contro il nemico.
Vuole nel ’48 fondare insieme a Ferruccio Parri ed altri il Circolo Giustizia e Libertà di Roma perché si sentiva solo dopo che erano caduti tanti compagni di lotta attorno a lui e voleva fossero ricordati in un luogo amico dove poter incontrare almeno le vedove, i figli e i partigiani sopravvissuti.
Il Circolo G&L è ancora lì ed è fiero di perpetuarne la memoria al centro della sua sala e così il 10 giugno l’assessore Gianni Borgna ha scoperto una lapide di Cencio per la quale il Comune di Roma ha dato il Patrocinio .
Erano anche presenti Pietro Amendola, Giulio Spallone, Giuliano Vassalli e parenti di martiri delle Ardeatine
Il prof.Vittorio Gabrieli ha poi ricordato l’amicizia e il carattere di Baldazzi come li ha vissuti combattendo vicino a lui nei mesi terribili dell’occupazione di Roma.
L’atmosfera di quel tempo e la partecipazione alla Resistenza di tanta gente semplice, artigiani ed operai, che difesero la loro dignità di uomini con sprezzo del pericolo e nobile modestia, sono state evocate dal prof.Alessandro Portelli il quale ha dichiarato che nel palazzo di Via Andrea Doria c’è un pezzo di Roma da non dimenticare.
La cerimonia è terminata nello spirito di semplicità e familiarità con cui era nata.
La lapide resta anche a ricordo di coloro che accompagnarono Cencio nella lotta per la libertà e non poterono goderla. Scrisse il grande Giuseppe Mazzini :
“Noi amavamo la vita, amavamo esseri che ce la facevano cara
e che ci supplicavano di cedere;
tutti gli impulsi del nostro core dicevano vivi! a ciascuno di noi,
ma per la salute delle generazioni a venire, scegliemmo morire “

Guido Albertelli
---------------------------------------------------------------------------

FOTO DELLA LAPIDE A CENCIO BALDAZZI

---------------------------------------------------------------------------

Breve cronistoria della vita di Vincenzo Baldazzi (detto Cencio).
(a cura di Walter Spinetti
in occasione delle celebrazioni, in onore di "Cencio" Baldazzi,
presso i locali del Circolo"Giustizia e Libertà" di Roma - 10/06/2005).

A volte è difficile credere che certi valori e ideali possano incidere così a fondo nel destino di un uomo, ma è quello che è accaduto a Cencio Baldazzi che ha plasmato tutta la sua vita intorno alle idee e profonde convinzioni che aveva sui principi di eguaglianza, giustizia sociale e libertà di pensiero. Cencio Baldazzi ha pagato un duro prezzo per tutto questo, ha trascorso 17 anni della sua vita tra carcere duro e confino. Ma facciamo un breve passo indietro: Vincenzo Baldazzi nasce a Genzano di Roma il 25/10/1898, già all'età di 14 anni, forte dei suoi ideali mazziniani, aderisce ai Circoli giovanili repubblicani; a 16, seguendo i suoi maestri P.Nenni, E.Chiesa, A.Borghi ed E.Malatesta, partecipa ad Ancona (07/06/1914) ad uno sciopero nazionale; in seguito, alterando i suoi dati anagrafici, parte come volontario nella Ia Guerra Mondiale e divenuto comandante della XVIa Squadra Lanciabombe, il 30/08/1917, viene ferito sull'altipiano della Bainsizza. Il 1° gennaio del 1919 viene costituita l'Associazione Nazionale degli "Arditi di Guerra", per i repubblicani sono presenti C.Baldazzi e A.Morea (da sottolineare che gli Arditi rivendicavano ufficialmente una partecipazione diretta alla gestione della Nazione). Purtroppo molti Arditi finiranno anche nei cosiddetti "Fasci di combattimento" costituiti nello stesso periodo da Mussolini. Il 27/06/1921, dopo la parentesi "fiumana" di G.D'Annunzio, a seguito delle sistematiche aggressioni dei Fasci di combattimento contro operai, contadini, esponenti di partiti di sinistra e sedi di giornali, viene ufficialmente fondato, per arginare queste violenze, il movimento degli "Arditi del Popolo", ne sono i principali promotori: R.Bellia, A.Secondari, C.Baldazzi, A.Eluisi e S.Provaglio. Il Movimento viene così formato con il concorso di varie componenti sociali e politiche, con il favore e la fattiva partecipazione di anarchici, comunisti e repubblicani allo scopo di sottrarre le organizzazioni combattentistiche all'influenza fascista (in particolare, il deliberato fondamentale dell'assise di formazione riguarda la difesa armata delle sedi del movimento operaio). Sono tempi oscuri quelli in cui si trovano ad operare gli Arditi del Popolo che quasi subito vengono decimati dagli arresti che seguono alle perquisizioni con sequestro di armi. Tutto questo avviene in un atteggiamento da parte del Governo Bonomi di equidistanza fra gli opposti schieramenti di Arditi e Fasci. Occorre tener presente che sarà proprio questo clima di generale qualunquismo ed insensibilità da parte della Nazione a far consolidare quel Fascismo selvaggio e repressivo che culminerà, poi, con l'uccisione di G.Matteotti e la promulgazione delle Leggi Eccezionali. Gli anni che seguono al 1922 sono per Cencio i più difficili: nel 1924 (dopo gli assasinii di Don Minzoni, Matteotti e le aggressioni subite da G.Amendola, R.Bencivenga, P.Gobetti) è uno dei promotori, a Firenze, dell'Associazione clandestina "Italia Libera", nel contempo i fratelli Rosselli, G.Salvemini ed E.Rossi stampano il giornale "Non mollare"; nel 1926, dopo gli attentati a Mussolini da parte della Gibson, Zaniboni e dell'anarchico Lucetti, viene sistematicamente arrestato e comunque sottoposto a stretta sorveglianza: nello stesso anno la Commissione Provinciale, abilitata ad assegnare il confino politico a tutti gli oppositori antifascisti, condanna Cencio a 5 anni da scontarsi nell'isola di Lampedusa (dove incontrerà Nitti), poi ad Ustica. Nel 1927, tuttavia, viene ritrasferito a Roma per essere sottoposto ad un intervento chirurgico a causa dell'aggravamento della sua vecchia ferita di guerra: approfittando di questa circostanza reca il suo aiuto alla moglie dell'anarchico Lucetti facendole pervenire la somma di 300 lire ed una lettera di conforto, cercando nel contempo di favorire i compagni romani che avevano il progetto di far evadere il Lucetti in occasione del processo. Scoperto viene denunciato al Tribunale Speciale che lo condanna ad altri 5 anni di reclusione da scontarsi nel carcere di Alghero prima ed in seguito ad Alessandria.
Nel 1932 è trasferito a Ponza insieme a Salvadori, Germani, Basso e Canepa. Nel 1934 torna nuovamente a Roma ove, in libertà vigilata, viene relegato a Fregene (dove era proprietario del ristorante "La Conchiglia"). Il 04/08/1936, a scopo preventivo, nuovamente arrestato e separato definitivamente dagli altri illustri reclusi del Movimento di "Giustizia e Libertà" (Bauer, Rossi, Fancello, Calace, Terracini, Pertini, Spinelli e molti altri) è inviato a Ventotene. Sarà, poi, trasferito alle isole Tremiti dove resterà ininterrottamente fino al 25/07/1943. Tornato a Roma nell'agosto del 1943, in assenza di R.Bauer, viene incaricato dall'Esecutivo del Partito d'Azione di organizzare ed assumere il comando delle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà" nei quartieri di Trionfale e Trastevere, compito che assolverà brillantemente dirigendo la resistenza nella città ed in provincia coordinando le "proprie" azioni con Albertelli, Bauer, Buttaroni, Chierici, Eluisi, Gabrieli, Fancello, La Malfa, Longo, Lussu, Pertini, Rossi Doria, Roveda, Salvadori, Trombadori, Vassalli e moltissimi altri. Dopo l'8 settembre sono innumerevoli le azioni portate a termine, in questa sede sarebbe troppo lungo elencarle tutte, sia, però, sufficiente pensare che sono i mesi dell'occupazione nazi-fascista costellati da episodi che hanno avuto il loro drammatico epilogo in luoghi come Via Tasso, l'Hotel Flora, la Pensione Jaccarino, le Fosse Ardeatine, Palidoro, La Storta: azioni, comunque, condotte da uomini semplici, letterati, cattolici, atei, uomini e donne di ogni estrazione socio/culturale certamente differenti nelle loro esperienze di vita, ma tutti uniti sotto gli stessi ideali di eguaglianza, giustizia sociale e libertà di pensiero. Nel 1946 "Cencio" viene designato dal Partito d'Azione come Consultore Nazionale per l'elaborazione della nuova Costituzione Italiana e dopo il referendum che darà la vittoria alla Repubblica viene nominato, nello stesso anno, Commissario Nazionale dell'ENAL. Il 18 febbraio del 1948 fonda, insieme a suoi vecchi compagni di lotta, il Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma con lo scopo di mantenere vivo e propagare lo spirito e le idealità democratiche e sociali che hanno animato tutti coloro che hanno preso parte, nelle formazioni partigiane di G.L., alla lotta contro la barbarie nazi-fascista. Assumerà, poi, la Presidenza dell'ANMIG ed in seguito quella della Cassa di Previdenza e Mutuo Soccorso della STEFER. Con lo scioglimento del Partito d'Azione, Cencio, confluisce nel PSI ed in questa nuova situazione, senza mai voler assurgere agli onori della cronaca per ciò che aveva compiuto e subito durante gli anni della sua travagliata vita, il 23 maggio 1982, modestamente, come era sempre vissuto si spegne nella sua casa di Roma.
Al suo funerale parteciperà, seppure in forma privata, un suo vecchio compagno di lotta, l'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. A conclusione di questa veloce carrellata di nomi e date cosa dire, ancora, sulla figura di "Cencio": qualcuno lo ha definito un moderno "Ciceruacchio" e fu certamente un uomo d'azione incurante dei pericoli che dovette affrontare. Dietro quei modi a volte bruschi e di poche parole nascondeva, in realtà, il carattere di un uomo generoso, profondamente umano, schivo delle luci della ribalta che tanti personaggi odierni vanno invece rincorrendo ed insofferente verso ogni mania di protagonismo. Perseguì quei valori e quei doveri morali verso la comunità senza alcuna distinzione di origine, razza, credenze e condizioni sociali: principi, questi, che Cencio aveva ben radicati con la consapevolezza che, anche a prezzo della propria vita nel rispetto di quegli stessi ideali, si potesse avere la libertà di dire "NO" ad un regime che aveva soffocato nel sangue qualsiasi opposizione.
Ancora molto ci sarebbe, ma concluderò, infine, dicendo solo questo: se il fascismo come regime è, con ogni probabilità, un fenomeno irripetibile, l'avventura autoritaria costituisce, al contrario, un pericolo strisciante sempre capace di insidiare le democrazie nei loro momenti di transizione e crisi, sono le figure come Vincenzo Baldazzi, che nel corso della storia del nostro Paese hanno combattuto perché ciò non accadesse. Personaggi dallo spirito libero, libertà che è stata per Loro il segno stesso della dignità dell'esser uomo.

---------------------------------------------------------------------